Prima di entrare nel merito della questione di come il comportamento di uno stato possa essere considerato opportuno in termini strategici a livello di sviluppo economico, per la sua economia interna e per le economie esterne interessate direttamente e indirettamente dalle proprie politiche sui dazi, partiamo da una importante premessa.
Cerchiamo intanto di dare una definizione di Globalizzazione. Questo fenomeno che viviamo ormai da molti decenni ha avuto un impatto profondo sulla dimensione commerciale delle economie mondiali. Il commercio internazionale è aumentato in modo significativo, grazie alla riduzione delle barriere doganali e all’intensificazione degli scambi tra paesi, portando le aziende a poter vendere i propri prodotti e servizi non solo a livello nazionale, ma anche su scala globale. Le transazioni internazionali sono diventate sempre più frequenti e veloci, grazie anche ai progressi nei trasporti e nelle comunicazioni.
Un aspetto centrale di questo fenomeno è la divisione internazionale del lavoro e la specializzazione territoriale. Ogni paese, a seconda delle proprie risorse, capacità produttive e vantaggi competitivi, si specializza nella produzione di determinati beni o servizi. Ad esempio, alcuni paesi si concentrano sulla manifattura di prodotti tecnologici avanzati, mentre altri si specializzano nell’agricoltura o nella produzione di beni di consumo. Questo porta a una rete globale di produzione, dove le merci e i servizi possono essere creati in diversi luoghi e assemblati in altre nazioni, aumentando l’efficienza e riducendo i costi.
In questo contesto le aziende, per restare competitive a livello globale, devono scegliere con attenzione dove localizzare le proprie operazioni. La decisione di stabilirsi in un determinato territorio dipende da una serie di fattori economici, come il costo del lavoro, la disponibilità di risorse naturali, la qualità delle infrastrutture e l’accesso ai mercati internazionali. In altre parole, i territori competono tra loro per attrarre investimenti, offrendo incentivi fiscali, leggi favorevoli e altre politiche che rendano conveniente la presenza di aziende (tariffe doganali e dazi compresi).
Le multinazionali, per esempio, sono molto sensibili ai costi e spesso spostano la produzione in paesi dove il lavoro è più economico o dove possono beneficiare di politiche fiscali più vantaggiose. Questo fenomeno ha dato origine alla delocalizzazione della produzione, un processo in cui le aziende trasferiscono le loro attività da paesi con costi elevati a quelli con costi più bassi, contribuendo a un aumento della globalizzazione economica.
La più moderna e attuale versione della Globalizzazione si definisce Iper-Globalizzazione, caratterizzata da un’integrazione economica estremamente più profonda e spinta tra le economie mondiali, che va oltre il semplice scambio di beni e servizi tra paesi.
In questa fase si riducono drasticamente dazi e barriere commerciali e si assiste anche a una frammentazione e delocalizzazione ancora maggiore rispetto alla Globalizzazione su scala globale dei processi produttivi. Le imprese organizzano le loro attività attraverso un numero sempre maggiore di catene del valore distribuite tra diversi continenti: la progettazione può avvenire in un paese, la produzione in un altro, l’assemblaggio in un terzo e la commercializzazione in un quarto, in un quinto e così via. Oggi, un prodotto può contenere componenti progettati negli Stati Uniti, assemblati in Cina, realizzati con materie prime africane e integrati con software sviluppato in Europa. È come se il mondo fosse un unico distretto industriale e commerciale.
Ma questo sistema si regge su alcuni pilastri fondamentali come la libertà di scambio commerciale garantita da accordi multilaterali di abbattimento delle barrire doganali, l’efficienza allocativa che consente ai paesi di specializzarsi nei settori in cui sono più competitivi e la possibilità di sfruttare economie di scala a livello globale.
L’imposizione dei dazi, come sta avvenendo sotto la presidenza di Trump, mina le fondamenta del sistema economico globale. I dazi, infatti, alterano le regole della concorrenza e aumentano i costi per molte industrie americane, come quelle dell’acciaio e dell’elettronica, riducendo la competitività delle imprese statunitensi sia sul mercato interno che in quelli internazionali. Le catene del valore globali, infatti, si fondano su margini di profitto molto sottili e su una logistica inter e iper-connessa; un aumento dei costi in un punto della catena rischia di propagarsi e compromettere l’efficienza dell’intero sistema produttivo. Le multinazionali potrebbero essere costrette a delocalizzare stabilimenti o a cercare nuovi mercati più aperti, facendo così perdere agli Stati Uniti quote di produzione e posti di lavoro qualificati.
Gli Stati Uniti, tra l’altro, non sono autosufficienti dal punto di vista produttivo. Dipendono da forniture estere per beni e tecnologie strategiche, come componenti elettronici, terre rare e materie prime industriali. Isolandosi o rompendo i legami con i principali partner commerciali, si espongono a gravi vulnerabilità in settori determinanti per la loro sicurezza e competitività.
A ciò si aggiunge l’inevitabile spirale di ritorsioni da parte di altri paesi. Se Washington introduce dazi su beni cinesi o europei, Pechino e Bruxelles rispondono penalizzando l’export americano, colpendo settori chiave come l’agricoltura, l’aerospaziale e la tecnologia. Questo crea un effetto domino che mina la fiducia internazionale e segmenta ulteriormente il mercato globale.
Tra gli altri effetti negativi, l’aumento dei dazi porta a un’inflazione importata. I beni di consumo e gli input produttivi costano di più, riducendo il potere d’acquisto delle famiglie e aumentando i costi per le imprese. Inoltre, l’incertezza geopolitica e commerciale scoraggia gli investimenti diretti negli Stati Uniti, spingendo le multinazionali a dirottare capitali e attività produttive verso mercati più stabili e prevedibili.
Un’altra considerazione non meno rilevante, infine, riguarda la fiducia globale negli Stati Uniti sui mercati, che potrebbe subire un’erosione strutturale. L’economia americana si fonda anche sul ruolo centrale del dollaro come valuta di riserva e sulla forza di Wall Street come piazza finanziaria mondiale. Un approccio isolazionista e protezionista potrebbe alimentare dinamiche centrifughe, favorendo blocchi economici alternativi, come i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), che potrebbero rafforzarsi e ridurre il peso sistemico degli Stati Uniti.
Per questi motivi, l’economia statunitense rischia l’autodistruzione.